Lavoro all’estero: cervelli italiani in fuga
Negli ultimi decenni, sempre più giovani italiani qualificati hanno intrapreso la strada dell’espatrio in cerca di opportunità lavorative migliori. Molti di coloro che decidono di lasciare il Paese lo fanno spinti dalla ricerca di nuove prospettive professionali, dalla voglia di sperimentare culture diverse o più semplicemente perché hanno fatto un percorso di studi nel paese che poi li trattiene offrendo loro posizioni migliori di quelle che si prospetterebbero rientrando in Italia. La fuga di cervelli ha assunto proporzioni da capogiro, tali da rendere difficile reperire risorse per dare slancio al progresso tecnologico necessario allo sviluppo economico, e a migliorare la produttività e competitività del Paese.
Questa ondata migratoria ha dimensioni paragonabili a quelle del passato e insieme al calo della natalità rischia di farci diventare, se già non lo siamo, un paese in declino. I numeri reali di chi parte sono il triplo di quelli stimati. Lo dimostra un recente (ottobre 2023) studio del Regno Unito realizzato dalla Fondazione nord est insieme all’associazione Talented Italians.
La ricerca
I numeri assoluti paiono a prima vista molto inferiori a quelli delle tre grandi emigrazioni passate. Negli undici anni 2011-2021, secondo i dati ISTAT, 451.585 giovani italiani di 18-34 anni hanno trasferito all’estero la residenza, mentre 134.543 dall’estero l’hanno trasferita in Italia. Nel complesso, dall’Italia sono usciti 317.042 giovani (saldo migratorio). Questo numero si confronta con i quasi 600mila del saldo migratorio totale di italiani nello stesso periodo: un terzo degli 1,8 milioni del 1951-61 e del 1919-1930 e i 5,2 milioni del 1904-14. A tutta prima quindi il flusso non sembra preoccupante e non ha avuto particolare considerazione in termini di valutazioni sulla demografia.
L’analisi prende in considerazione tre significative differenze strutturali del nostro paese rispetto al resto d’Europa: glaciazione demografica, competizione per attrarre talenti e Unione europea.
La glaciazione demografica
L’uscita di giovani coincide con il fenomeno della “glaciazione demografica”. Che vuol dire una permanente e costante condizione di perdita di popolazione soprattutto giovanile non solo in quota sul totale ma anche in valore assoluto. Al netto di nuovi flussi migratori, le persone italiane nella fascia di età 20-34 anni saranno nel 2030, 580 mila meno (-8%) di oggi. Dunque, mentre l’emigrazione registrata decenni addietro avveniva in un contesto di forte aumento della popolazione giovanile, quella attuale aggrava l’assottigliamento delle coorti di giovani italiani aggiungendo al calo demografico tre punti percentuali.
La competizione per attrarre talenti
Questo assottigliamento potrebbe essere compensato quantitativamente dall’incremento, attraverso i flussi migratori, di giovani di cittadinanza straniera provenienti dagli altri paesi europei avanzati. Ma qui interviene la seconda differenza strutturale: la competizione globale per attrarre talenti. In tale competizione l’Italia sta partecipando da fornitore netto, attraverso la diaspora di giovani che hanno un elevato bagaglio di istruzione con un deflusso netto di capitale umano.
Ecco i numeri ISTAT che convalidano questa conclusione considerando i deflussi di giovani Italiani verso Francia, Germania e UK e gli afflussi di giovani non italiani da quegli stessi Paesi. Nel periodo 2011-2021 (undici anni) sono emigrati verso quei paesi 256 mila giovani italiani (20-39 anni) mentre da quei paesi sono arrivati 29 mila giovani, con un rapporto quindi di 9 a 1.
La costituzione dell’UE
La terza differenza strutturale è la costituzione dell’Unione europea. L’UE ha riconosciuto e attuato il diritto alla libera circolazione delle persone, rafforzata dall’accordo di Schengen che abolisce le frontiere interne all’UE (vi partecipano ora 23 Stati membri dell’Unione, più Islanda, Norvegia, Svizzera e Lichtenstein). L’Unione e la libertà di movimento hanno, però, ridotto le possibilità di censire in modo adeguato i saldi migratori tra i paesi aderenti con conseguente impoverimento della rilevazione statistica sui movimenti stessi rendendo poco affidabili i dati ufficiali.
Provvedimenti fiscali e il regime degli impatriati
Le agevolazioni in vigore dal 2019
Per favorire il rientro dei cervelli ed arginare il fenomeno, lo stato italiano nel 2019 ha emanato un provvedimento, il decreto legge 34 del 2019, in vigore dal 1/5/2019 che prevede consistenti agevolazioni fiscali per chi rientra dall’estero. La norma è applicabile quando sussistono due presupposti:
- il lavoratore non è stato residente in Italia nei due periodi d’imposta precedenti il trasferimento e si impegna a risiedervi per almeno due anni.
- l’attività lavorativa è svolta prevalentemente nel territorio italiano.
Per i contribuenti che si trovano in tali condizioni, nel periodo d’imposta in cui la residenza viene trasferita e nei successivi 4, il reddito di lavoro dipendente (o a esso assimilato) e di lavoro autonomo prodotto in Italia concorre alla formazione del reddito complessivo limitatamente al 30% dell’ammontare ovvero al 10% se la residenza è presa in una delle regioni Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sardegna, Sicilia.
Restrizione delle agevolazioni nella legge di bilancio 2023
La legge di bilancio 2023 però restringe significativamente questo incentivo fiscale. Di seguito, le principali novità per la disciplina dei lavoratori impatriati che sarà in vigore a partire dal 2024. Il testo della nuova agevolazione impatriati si rende applicabile per i soggetti che trasferiscono la residenza in Italia a partire dal 2024 e che soddisfano i seguenti requisiti:
- non sono stati fiscalmente residenti in Italia nei tre periodi d’imposta precedenti il predetto trasferimento e si impegnano a risiedere fiscalmente nel territorio dello Stato per almeno quattro anni;
- l’attività lavorativa (lavoro dipendente o lavoro autonomo come esercizio di arte o professione intellettuale) viene svolta prevalentemente nel territorio dello Stato;
- sono in possesso dei requisiti di elevata qualificazione o specializzazione come definiti dal decreto legislativo 28 giugno 2012, n. 108, e dal decreto legislativo 9 novembre 2007, n. 206.
L’agevolazione consiste in una detassazione ai fini IRPEF del 50% (ordinariamente) del reddito imponibile per cinque periodi di imposta.
Viene quindi richiesto un periodo più lungo di residenza fiscale all’estero (dagli attuali due anni a tre) e di permanenza in Italia dopo il rientro (cinque anni, pena la restituzione dello sconto), limitando poi l’agevolazione ai connazionali in possesso di requisiti di elevata qualificazione e a un tetto di reddito di 600 mila euro.
Modifiche delle agevolazioni per gli impatriati: dalla soluzione al rischio di stallo
Le nuove agevolazioni fiscali diventano così poco competitive, soprattutto per chi all’estero godeva di stipendi e condizioni contrattuali migliori rispetto a quelle italiane. Il viceministro dell’Economia Maurizio Leo ha rassicurato che la nuova norma sarà in vigore solo dal primo gennaio 2024 e, dunque, chi è rientrato o rientrerà in Italia quest’anno, anche se le residenze prese dal luglio in poi risultano fiscalmente dal 2024, potrà ancora agevolarsi della vecchia misura. La finalità che aveva ispirato il primo provvedimento viene sostanzialmente ridimensionata. Ma quel che è peggio l’Italia si conferma un paese nel quale non esiste certezza del diritto. Riformare una legge di questo tenore a soli 4 anni dalla sua entrata in vigore è di per sé un’azione che scoraggia i rientri. Non solo per la riduzione dell’agevolazione, ma anche perché impedisce un programmazione pluriennale del lavoro, innescando il timore di ulteriori revisioni al ribasso del provvedimento.