Occupazione giovanile: si comincia coi lavoretti in nero, l’alternanza scuola lavoro e si prosegue coi tirocini, poi tutto si blocca e i ragazzi rimangono delusi e disoccupati a lungo. L’Italia è fanalino di coda in Europa per il tasso di disoccupazione tra i giovani, che supera di tre volte e mezzo quello delle persone in età adulta contro una media Europea, pari a 2 volte.
Cerchiamo di capire le ragioni di questa distanza, ma soprattutto vediamo come si comportano i ragazzi e quali sono le loro scelte.
Il quadro generale
Il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) è attorno al 35%, nel resto dell’Europa viaggia mediamente al 19%. L’ingresso sul mercato del lavoro è spesso costellato da impieghi saltuari che si ripetono nel tempo – a volte lungo – prima di trovare un’occupazione stabile.
Sono avvantaggiati i ragazzi che hanno una certificazione professionale. Le aziende necessitano infatti di figure operative più tecniche. Per chi ha scelto di studiare di più (laurea, master), il tempo per trovare un’occupazione stabile e adeguatamente remunerata si allunga. In particolare nel mondo del terziario e dei servizi l’ingresso al lavoro è un percorso sconnesso e in salita. Ad aggravare la situazione l’allungamento dell’età pensionabile. Così giovani molto qualificati ricercano spesso lavoro all’estero o si osserva il fenomeno dei Neet, giovani scoraggiati che si abbandonano all’ozio, non essendo più studenti né in un qualsivoglia percorso di formazione e che rinunciano a cercare un’occupazione ponendosi ai margini. Il quadro si complica con l’asimmetria che si osserva, ahimè da anni, senza che se ne riesca a porre un reale rimedio, fra domanda e offerta, con imprese che non trovano manodopera specializzata.
Riportiamo di seguito uno stralcio dell’intervista a Francesco Seghezzi, presidente di Fondazione ADAPT e assegnista di ricerca presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, che riporta i risultati di un progetto di ricerca biennale condotto da Fondazione ADAPT per Fondazione Unipolis, pubblicata lo scorso maggio sulla rivista Pandora.
Come si comincia
“Il lavoro nero rappresenta un fenomeno diffuso nella fase di transizione scuola-lavoro. Se prendiamo i giovani tra i 15 e i 24 anni di età, tra il 35% e il 40% ha sperimentato una forma di lavoro irregolare, un dato che se messo in relazione con l’età media di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro (22 anni) rende l’idea di come il lavoro irregolare sia in moltissimi casi la prima tipologia con cui i giovani entrano in contatto con un qualche tipo di attività lavorativa. In molti casi si tratta principalmente di cosiddetti “lavoretti” (aiuto nei compiti, baby-sitting, rider) attività di “micro-lavoro” o lavoro digitale, che spesso i ragazzi compiono mentre sono impegnati in un percorso di studi. Verso i 25-29 anni l’incidenza del lavoro nero sulla tipologia di rapporto contrattuale scende drasticamente: questo accade perché i ragazzi hanno ottenuto un titolo di studio e possono accedere a forme di lavoro regolamentate, o perché hanno accumulato esperienza. Solo in Sicilia il lavoro nero aumenta anche dopo questa età. Ma il fenomeno, in questo caso è attribuibile alle scarse possibilità occupazionali di quel territorio.”
La condizione giovanile
“Come ampiamente risaputo, i dati sull’occupazione giovanile italiana restituiscono un quadro drammatico, che vede il nostro Paese al terzo posto per tasso di disoccupazione giovanile e al primo posto per presenza di NEET, cioè giovani tra i 15 e i 29 anni di età che non lavorano e non sono impegnati in percorsi di istruzione e formazione. Una concausa di tale situazione è rappresentata dalla difficile transizione scuola-lavoro, che si caratterizza per instabilità, lunghezza, scarse garanzie economiche e mancanza di strumenti adeguati, ricaduta della responsabilità quasi esclusivamente sulle spalle del giovane (…)”.
Le opportunità di lavoro
“Se ci riferiamo alle forme contrattuali più diffuse nell’accesso al mercato del lavoro, l’indagine rivela come il contratto a tempo determinato rappresenti la metà dei contratti in ingresso, seguito dall’apprendistato e dal lavoro intermettente, più raramente dalla forma in somministrazione o a tempo indeterminato.
La statistica però non tiene conto dei tirocini extracurriculari, in quanto non rientranti tra le tipologie di rapporto di lavoro ma tra le misure di “politica attiva del lavoro”, che però sono di gran lunga lo strumento più utilizzato: solo nel 2019 sono stati attivati più di 350.000 tirocini. Il tirocinio risulta essere lo strumento privilegiato anche dal punto di vista degli studenti, che lo considerano utile per “sperimentare” i propri obiettivi professionali, cioè per capire se quel posto di lavoro faccia al caso loro.
Parlando invece di esperienze regolamentate ma non contrattualizzate, il metodo dell’alternanza formativa è ormai diffuso a livello nazionale e, attraverso strumenti quali il tirocinio curriculare (che interessa l’80% dei giovani impegnati nell’alternanza scuola-lavoro) riesce a “rompere” quella barriera che esiste in Italia tra scuola e lavoro. L’alternanza scuola-lavoro permette al giovane di svolgere parte della formazione “on the job”, rappresentando un primo accesso del giovane nel contesto aziendale, nel quale può acquisire competenze spendibili in ottica futura.
tutti questi strumenti di ingresso hanno però dei tassi di permanenza nel posto di lavoro molto altalenanti ad eccezione del contratto di apprendistato che invece evidenzia un tasso di permanenza presso lo stesso datore dell’80% dei casi.
Qualche passo avanti
E sempre secondo il dottor Seghezzi qualche spunto positivo nasce proprio dall’aver introdotto nelle scuole attraverso l’alternanza scuola lavoro, una forma di avvicinamento al mondo del lavoro. E’ un primo passo che serve a mettere a fuoco le vere esigenze dell’industria e dei servizi, facendo un’esperienza diretta.
“(…) Concentrarsi unicamente sulle criticità rischia di inchiodarci allo status quo. Le aree grigie del “non-mercato”, a cui afferiscono le esperienze dei tirocini, del volontariato, dei lavori sporadici o saltuari, devono infatti essere analizzate per trarne spunti da cui definire strumenti che valorizzino queste esperienze e le rendano funzionali allo sviluppo di competenze, alla definizione di professionalità e al contrasto all’esclusione sociale dei giovani. Solo così sarà possibile costruire percorsi lavorativi fruttuosi e una corretta gestione di quelle transizioni occupazionali che sappiamo saranno sempre più la normalità per le nuove generazioni.